Il mio metodo

Le risposte sono sempre le domande…

Con i miei pazienti inizio sempre con la domanda più inaspettata e difficile: “Mi racconti cosa sta andando bene e tutte le cose che sa fare”.
L’essere umano, per eredità, costituzione, storia, cultura, religione ed educazione, tende ad essere fedele alla sofferenza, rispettando un principio universale secondo cui sarebbe più facile soffrire che non guarire. E questa lealtà inconscia può anche ripetere destini familiari difficili, trasformandosi nei “mal-d’essere” che tutti conosciamo.
“La felicità costa molto poco: se è cara, non è di buona qualità”,
ha sempre sostenuto Bert Hellinger, uno dei miei formatori e padre delle Costellazioni Familiari.
Allora da “ex-ducere” (tirare fuori), sento che il mio primo compito sia quello di educare alla felicità per la quale siamo stati programmati.
Mi servo sempre del termine “resilienza”, un termine che la psicologia ha sottratto alla chimica: un metallo, quando subisce un colpo, chimicamente si autoripara e si riprende.
Così tutti gli esseri viventi, dalle piante agli uomini, tendono fisiologicamente a rispondere a traumi con riparazioni naturali.
Una volta individuato ciò che si sa fare, si stabilisce un’alleanza terapeutica che va ad avviare un lavoro di “squadra” teso a superare insieme quel poco che ancora manca.
Stabilire inizialmente i confini di questa cornice, permetterà poi di individuare e utilizzare le strategie più adatte per ogni singolo individuo.
Individuo, coppia, famiglia possono così trovare un contesto in grado di accogliere i bisogni di ognuno, trasformandoli in risorse.
Negli ultimi anni la mia formazione sistemica ha trovato un impulso nuovo grazie all’ormai insostituibile terapia della doppia focalizzazione (EMDR) dove la comunicazione viene associata ad un movimento alternato bilaterale (movimenti oculari, tapping, movimento “a farfalla” o utilizzo di manopole con stimoli tattili, uditivi, visivi) che permette una rapida rielaborazione del vissuto traumatico.
Sento che la relazione terapeuta/cliente sia un incontro significativo, uno spazio “sacro”, dove si arriva sempre in particolari momenti evolutivi o di sofferenza che richiedono ascolto e presenza.
Il tutto in un “tempio”, disposto ad accoglie sempre, senza giudizio.
Perché
“Ben oltre le idee di giusto e sbagliato c’è un campo.
Ti aspetterò laggiù”.
( Jalaluddin Rumi, XIII secolo).
GRAZIE.